venerdì 9 marzo 2012

la poesia antidoto alla parola-rumore

Linguaggi perduti e linguaggi da salvare, bla bla vuoti e silenzi risonanti di echi e di ascolto sinestesico.
E' quanto suggerisce Gianluigi Beccaria, in una delle sue "Parole in corso" che, in realtà, si occupa di parole "fuori corso".

Le parole non servono solo a comunicare la realtà ma la creano. Tutto ciò che esiste è nel linguaggio, ciò che non è più nominato smette di vivere. Le idee, gli oggetti, i luoghi sono modi di essere della parola, sedimentati dal tempo. In questo senso ogni lingua è un’eredità, ogni lingua che scompare è un pezzo di umanità che si dilegua, così come ogni saggio che scompare è come un biblioteca che va a fuoco. Così per la poesia. Ogni poeta che scompare è un pezzo necessario di mondo che se ne va per sempre. Il mondo non è più lo stesso ora che non c’è più Andrea Zanzotto. Ora che manca, è venuto meno il poeta che avrebbe potuto continuare a consentirci di scoprire ciò che senza i suoi libri noi non saremo più in grado di vedere in noi stessi. Se ne sono andate le parole che avrebbe ancora potuto dirci.

Eppure, c’è chi è del tutto indifferente alla poesia. Ricordo la provocazione dello scrittore polacco Witold Gombrowicz, Contro i poeti (1947): «Il mondo della poesia è un mondo fittizio e falso», la poesia - continua - non mi piace «per la stessa ragione per cui non mi piace lo zucchero puro. Lo zuccherò è gradevole se preso insieme al caffè, ma nessuno si mangerebbe un piatto di zucchero: sarebbe eccessivo. È l’eccesso ciò che stanca della poesia, eccesso di parole poetiche, eccesso di metafore, eccesso di nobiltà, eccesso di depurazione e di condensazione». Sembrerebbe vero: i tessuti timbrici e ritmici, le forzature metaforiche sono in poesia eccessivi; si enfatizzano certi aspetti che invece il linguaggio comune tende a ridurre al minimo, e il linguaggio scientifico ad annullare. La lingua della poesia sembra (in superficie) un qualcosa di abnorme, di non reale, «è una favella che ha i piè ferrati nel metro e nelle rime, tutta fuori del parlare della natura» diceva nel secolo dei lumi il carmelitano Teobaldo Ceva.

La poesia è un «fantasma» sonoro e ritmico, e una contraddizione in termini (concordanze irragionevoli degli opposti, sinestesie che confondono sensi diversi, invenzioni di voci inesistenti). Devia dal linguaggio normale, nel quale conta poco la materia che lo compone. In poesia l’indifferenza alla «materia» viene invece a cessare. La parola non è più qualcosa di neutro, di senza colore, ma ha un peso, una levigatezza, una scabrosità. Nel «consumo spaventoso e terrificante di parole e di immagini che si fa oggi», nel contesto di un bla bla universale, in questa «colluvie di chiacchiere inutili», in questa escrescenza e «escrementi di celluloide e tapes vari», come scriveva Zanzotto, dove la parola è volutamente esposta come puro rumore, la poesia col suo suono incantatorio e col suo buio aiuta, come la notte, a lavare la mente e portare una luce.

(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 29 ottobre)

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